Montagna Magica

[:it]Steve House e l’etica nell’alpinismo[:]

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Steve House è l’alpinista che in questi ultimi anni ha ispirato e motivato la “nouvelle vague” dell’alpinismo più puro, lo “stile alpino”, sinonimo del salire leggeri e con mezzi ridottissimi, affrontando la montagna dalla base alla cima, in un unico viaggio, senza soluzione di continuità, lasciando sulla montagna soltanto le proprie effimere tracce.
Nato il 4 Agosto 1970 in Oregon, laureato in scienze dell’ecologia, Steve House diventa guida alpina nel 1999.
La sua splendida solitaria del K7, cima maestosa di quasi 7000 metri in Karakorum, avvenuta nel 2004, gli porta notorietà nel mondo alpinistico.
La fama e la sua reputazione diventano enormi dopo l’incredibile prima salita del pilastro centrale dell’immensa parete Rupal del Nanga Parbat, portata a termine nel 2005 con Vincent Anderson.
Una salita che gli vale l’ “Oscar dell’Alpinismo”, il Piolet d’Or, un riconoscimento che l’ha fatto entrare di diritto nel gotha dei grandissimi alpinisti di tutti i tempi.
Per capire come abbia fatto Steve House a sviluppare e consolidare un alpinismo puro, creativo e minimale si deve ricordare la sua origine: dalla sua “formazione alpinistica” sulle grandi e freddissime montagne dell’Alaska e delle Canadian Rockies, alle Alpi della Slovenia, sua seconda patria. Da giovane Steve House aveva studiato nel piccolo paese montagnoso e era rimasto affascinato dall’ambiente e dalla famosa e rigorosa Scuola Slovena.
E’ in Alaska sul Monte Denali che, nel 1995, a 25 anni, House apre una delle sue vie più belle. Sempre sulla più grande e temuta montagna del Nord America , si ripete con altri due nuovi itinerari, nel 1996 e nel 1997.
Non è facile elencare tutte le sue salite di rilievo prima della sua esplosione internazionale. Nel 2000, sempre con Twight e Scott Backes, brillano le 60 ore della velocissima salita della diretta Slovacca al Denali. Nel 2002 spicca la corsa, effettuata insieme a Rolando Garibotti, il “guru” dell’alpinismo patagonico, lungo la “Cresta infinita” del Mount Foraker: 20 ore per la salita e 5 per la discesa al posto dei 7 giorni che normalmente impegnano gli alpinisti.
Infine, vanno citate le sue 27 ore dal campo base alla cima dell’ottomila Cho Oyu e ritorno, un test di resistenza alle grandissime quote.
Queste e altre imprese costituiscono il suo vero e proprio percorso di formazione e crescita, che poi ha reso possibile le incredibili imprese degli anni duemila.
A partire da quella salita con cui House aveva stupito il mondo dell’alpinismo: l’apertura solitaria di una nuova via sulla parete Sud Ovest del K7. Una scalata per nulla improvvisata, che aveva lasciato tutti a bocca aperta. Non solo per il coraggio pazzesco con cui era stata concepita, ma per lo stile purissimo con cui era stata compiuta. Sul K7, stupenda montagna pakistana della Charakusa Valley, House era partito e ripartito per tre volte prima di chiudere i conti arrivando in vetta.
Una prova semplicemente impensabile, viste la difficoltà e i rischi che comportava. “Psicologicamente è stato difficile, certo…” aveva spiegato lo stesso House al noto magazine planetmountain.com .
” ogni volta sono arrivato più vicino alla cima, perché ogni volta ho imparato qualcosa di più. Dovevo essere al mio meglio, e ci sono volute 3 volte per esserlo”.

Forse sta tutto qui il fascino del K7 di House, in questo vero e proprio viaggio di conoscenza. Del resto il suo percorso , come punto di riferimento per gli alpinisti di tutto il mondo, era appena all’inizio.
L’anno dopo, nel 2005, House è ancora lì, nell’estrema propaggine nord dell’Himalaya, per approfondire il suo viaggio interiore e per affermare la sua etica senza alcun compromesso possibile: la meta del viaggio è l’immensa parete Rupal del Nanga Parbat, oltre 4000 metri di verticalità, ghiaccio, seracchi e valanghe.
House l’affronta con Vince Anderson, amico di sempre.
Al campo base incontreranno Tomaz Humar, di cui abbiamo recentemente parlato in una puntata a lui dedicata: Tomaz Humar lo sloveno irrequieto, tentando di precedere i due americani, finirà inchiodato sulla parete e salvato miracolosamente giorni dopo da un elicottero militare.
Steve House e Vince Anderson partono , cercando la strada che hanno intuito dal basso, l’unica possibile in mezzo ai pericolosissimi seracchi. La loro è una vera e propria scommessa che, dopo 7 incredibili giorni, termina in cima a quella che è la salita dell’anno, se non del decennio: sicuro un’impresa storica.


E’ la prima scalata del versante Rupal, in puro stile alpino, del Nanga Parbat. E’ la via che vale il Piolet d’Or che lo consacra definitivamente.

Eppure, dopo quella straordinaria salita, come ricorderà House stesso in uno scritto-confessione impressionante, arriva la depressione, il vuoto. Cos’altro puoi fare, dopo una mostruosità del genere?

“Mi svegliai in una stanza di motel, il letto pieno del mio vomito, le bottiglie d’alcol sparse sul pavimento, assieme al mio portafoglio vuoto. La donna che avevo conosciuto poche ore prima l’aveva svuotato del cachet dell’ennesima conferenza sulla mia impresa al Nanga Parbat”.
Arriva il divorzio dalla sua compagna di una vita, la crisi ma Steve ha la forza di ricominciare e di riprendersi, faticosamente.

Piolet D’or Steve House/Vince Anderson

Lo fa con altre avventure in montagna che privilegiano prima di tutto la ricerca di un’esperienza personale, su cime poco conosciute o poco “glamour” per il grande pubblico, nelle Canadian Rockies.
E probabilmente un grande aiuto psicologico lo trae dalla scrittura e pubblicazione di “Oltre la montagna” il libro in cui House racconta la sua storia, e guarda la sua esperienza complessiva, esorcizzando i demoni che lo perseguitano, lui così ossessionato dallo stile puro e così critico nei confronti di chi scala le montagne con spedizioni pesanti.

In un’intervista di qualche anno fa, Steve House diceva:

“La parte più difficile dell’alpinismo, per me, riguarda la creatività, non la tecnica. Individuare la via, la linea da seguire. Pesare rischi e pericoli. Poi salire in quello che si chiama stile alpino, semplice e leggero. Non è sport perché non c’è competizione e ha bisogno d’altro, non soltanto di un’ottima preparazione fisica. Non diverte la gente, ma la ispira. Il suo racconto è enfasi dell’avventura. E’ arte”.

Negli ultimi anni Steve House ha dedicato anima e corpo a un progetto educativo per i giovani alpinisti, una vera e propria accademia, diventando un mentore. E’ sopravvissuto a un gravissimo incidente, e ha raccontato così il suo rapporto con la morte, argomento che ogni alpinista serio deve affrontare :

“L’ho incontrata due volte. In Canada, quando sulle Montagne Rocciose sono precipitato per 25 metri. Non ho mai perso conoscenza, ma ho rotto 20 costole, il bacino in due parti, avevo un polmone pieno di sangue e quando mi hanno recuperato in elicottero avevo forse un’ora di vita. Un male insopportabile appeso all’elicottero. Poi al Dru, sul Bianco. Ero solo e sono caduto in un crepaccio. Erano le 7 del mattino, ne sono uscito malconcio al tramonto. Ho imparato molto e ora offro la mia esperienza ai giovani. Sono sceso dall’estremo.”

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